VeneziePost, 23 ottobre 2015
Il Food italiano deve crescere rendendo globale la qualità
L’ad di un colosso da oltre quattro miliardi di fatturato. Due leader di aziende internazionalizzate, di cui una quotata in borsa, da circa 60 milioni. Sta tutto in questa fotografia il senso della questione di fondo che è stata discussa nella prima affollatissima tappa del Food Economy Tour che si è tenuta questa sera a Vicenza, presso la sede di Adacta. Alla domanda che campeggiava nel titolo del convegno, cruciale per l’intero settore agroalimentare, non solo nordestino, su “Come portare il cibo italiano nel mondo” Gian Mario Tondato Da Ruos, forte dei suoi 4.300 punti vendita in 30 Paesi di Autogrill, risponde facendo notare come, a parte rarissime eccezioni, le industrie italiane non siano riuscite a concepirsi su scala globale. Basti pensare alla Gdo, dove i colossi francesi la fanno da padrone, mentre le nostre catene, da Coop a Esselunga, giocano solo entro i confini domestici. Per Tondato la dimensione globale richiede reti distributive adeguate, come ha fatto nel campo dell’occhialeria Luxottica.
«Siamo circondati dalla retorica dei 44 distretti – dice Tondato – del doc, igp, dop. Da una ricerca di Banca Intesa esportiamo meno della Francia e della Germania, poco più della Spagna. Siamo dei nanetti. L’esportazione è collegata alla dimensione dell’azienda: se sei piccolo non esporti. A Milano è venuto il fondatore di Alibaba: la Cina è un grande mercato e io voglio dare un mercato ai piccoli. La digitalizzazione è fondamentale. L’America – aggiunge l’ad di Autogrill – sta facendo due trattati commerciali con l’Asia e l’Europa: i nostri standard d’esportazione si adegueranno a quelli asiatici. Questo elemento che nessun giornale tranne Repubblica ha citato definirà il futuro dei prossimi 20 anni».
Chiaro che se la dimensione della sfida competitiva è globale, aziende che in questo territorio sono ritenute ‘grandi e globalizzate’ come Masi, regina dell’Amarone, e Rigoni di Asiago, leader nelle confetture, rischiano di apparire improvvisamente piccolissime. Per non parlare – si è fatto notare nel dibattito – delle micro aziende da 2 o 3 milioni di fatturato che a fatica riescono a superare i confini regionali o al massimo nazionali. «Per andare in Cina – ammette Sandro Boscaini – la nostra dimensione non è sufficiente, perché in Paesi di quel tipo serve una massa critica da almeno 500 milioni di fatturato. L’alimentare italiano dovrebbe arrivare a 60 miliardi (ora 36) nel 2020 secondo i politici, con il vino e il dolciario a guidare. Ma è un’illusione: nessuno fa il programma e i progetti di come arrivare a questo traguardo? La Masi è tra le 20 aziende italiane del vino: le più grosse sono cooperative, tolte queste rimangono dieci aziende. Tra queste 5 sono meri imbottigliatori: la vera enologia italiana si basa su 6 aziende, 4 toscane e Masi».
Quali sono allora le soluzioni? Eataly ad oggi è ancora una catena di dimensioni ridotte (fattura solo qualche centinaio di milioni di euro) e cosa farà in futuro con l’arrivo di Andrea Guerra non è ancora chiaro, anche se è evidente che il suo ingresso nella società di Oscar Farinetti fa pensare ad un piano fortemente espansivo. Da Barilla e Ferrero è difficile immaginare che arrivino novità importanti su questo fronte. La Masi da parte sua sta iniziando ad aprire una propria catena di wineshop, strada battuta anche dal patròn di Calzedonia con la catena food & wine ‘Signorvino’, così come la Illy e Rana hanno da tempo avviato un percorso di aperture di propri spazi in giro per il mondo. Ma l’impressione che se ne è ricavata dal confronto è che si tratti ancora di iniziative più o meno azzeccate, ma tali da non mutare i destini del nostro tessuto imprenditoriale.
La strada – forse – è stato sottolineato, è quella di cercare di seguire in parte il percorso della moda senza commetterne l’errore di fondo: da una parte marchi e nicchie di altissima qualità, che poi finiscono nelle mani dei colossi francesi del lusso, dall’altra produzioni delocalizzate a basso costo. Per Andrea Rigoni, «Più che guardare i mercati bisogna guardare i bisogni: il cibo deve essere vero, deve essere sano, fatto per gli interessi dei consumatori, non dei produttori. Più che conquistare dobbiamo convincere. La gdo – conclude l’ad dell’azienda di confetture – è un mezzo di trasporto, ma deve scaturire il germe dell’interesse per quel prodotto. È la ristorazione di qualità che può portare il cibo italiano nel mondo».