La guida “I ristoranti d’Italia” dell’Espresso, dopo aver incoronato un suo piatto come “miglior creazione culinaria dell’anno”, l’ha definito «non più una promessa, ma una conferma della gastronomia italiana». È Alessandro Dal Degan, classe 1981, attualmente chef alla “Tana Gourmet” di Asiago. Nato a Torino ma veneto d’origine (la sua famiglia viene proprio da Asiago), Dal Degan sarà uno dei protagonisti di We-Food, cui parteciperà con alcuni showcooking da Berto’s Grandi Cucine a Tribano.
Chef, partiamo dal suo “orzotto giapponese”, premiato proprio in questi giorni?«È un piatto più facile da mangiare, che da spiegare. Diciamo che nasce un po’ come provocazione alla società moderna: siamo così abituati ai cibi prodotti in larga scala, surrogati e aromi che ormai abbiamo perso di vista il reale sapore delle cose. Il nostro palato, per dire, è così abituato alle zucchine del supermercato che quando ne assaggiamo una coltivata in orto, naturalmente, il sapore ci dà anche un po’ fastidio. Ma il gusto della zucchina è quello. Come far passare questo messaggio? Io ho pensato a un piatto che unisce elementi di terra e di mare, ma lavorati in modo tale che gli elementi marini danno un senso terroso e viceversa».
E il Giappone come entra, in questo connubio? «Con il katsuobushi, tipico della tradizione giapponese. Sono, diciamo, “foglie” di tonno, perché viene tagliato sottilissimo dopo essere stato essiccato e affumicato. È un elemento marino, che tuttavia sa di tutto meno che di pesce. Accentua il sapore di terra».
Secondo lei, a scatola chiusa, da cosa posso capire se un ristorante promette bene?«Non ci ho mai pensato. Ecco, direi che in generale è sempre giusto provare, però in effetti c’è qualche dettaglio utile anche a chi non è del mestiere. Intanto la pulizia, l’ordine e la gentilezza del personale fanno sempre ben sperare. Sono particolari riconoscibili per tutti, e tutti capiamo che se manca questo c’è poco da fidarsi. Poi metterei in guardia dai menù troppo estesi, anche solo perché ci vuole troppo tempo per scegliere. Scherzi a parte, si può facilmente intuire che se il ristorante propone troppe cose non può essere tutto fresco, quindi la qualità ne risente. Un ultimo metro di misura è il prezzo dei menù completi: quando vengono proposti a un prezzo che non basterebbe neanche a comprare gli ingredienti al supermercato, facciamoci due domande».
Oggi la cucina sembra appassionare chiunque. Ma come si diventa un bravo chef?«Intanto mi permetto una precisazione: si diventa cuoco, non chef. È una parola un po’ abusata, che tuttavia indica il ruolo, non il mestiere. Lo chef è il capo, e io nel mio ristorante ricopro anche il ruolo di capo. Ma preferisco definirmi cuoco. Detto questo, ci vogliono tanta passione, sacrificio e abnegazione. È più una missione che un lavoro: se vuoi farlo bene devi prima studiare e poi non smettere mai di imparare. E, non ultimo, abbandonare la speranza di arricchirsi. Lo dico sempre ai ragazzi, quando mi capita di andare nelle scuole: se volete far soldi, cambiate mestiere. Comunque il successo di un ristorante non lo decreta la bravura del cuoco, ma di tutto il gruppo di lavoro e lo staff nel suo insieme, che diventa una seconda famiglia. In generale, a volte è un lavoro un po’ alienante, che toglie molto spazio alla vita privata. La mia fortuna è avere una persona al mio fianco che mi sopporta e capisce. È una santa».
Secondo lei questa grande attenzione per la gastronomia ha migliorato la nostra cultura alimentare? «I programmi che parlano di cucina hanno un grave limite: si confonde l’esperimento che si può fare in televisione con quello che succede in un ristorante. Ed è tutto diverso: nella cucina di un ristorante di piatti ne devi preparare tanti, velocemente, insieme e tutti diversi tra loro. Detto questo, grazie ai media c’è più consapevolezza, ci si informa di più e si ha più attenzione per la qualità. Non solo in casa: quando in televisione si è iniziato a parlare moltissimo di cucina, questo in un primo momento ha portato un’impennata di fatturato nella ristorazione, perché ha invogliato le persone a riscoprire il piacere del buon ristorante. E c’è anche voglia di mettersi alla prova: quando tengo corsi di cucina vedo molti appassionati che poi cercano di replicare a casa i piatti imparati a lezione. In generale, un fattore molto positivo è che c’è più consapevolezza di quello che mangiamo. Poi ovviamente i ritmi di obbligano a trovare anche soluzioni veloci, qualche surgelato l’abbiamo mangiato tutti. Io non disdegno un buon hamburger, per esempio, anche perché a casa ho soprattutto voglia di staccare dal lavoro».Ma a casa cucina lei o la fidanzata? «Lei è bravissima, e io approfitto».